PER LA FESTA 2020 SCRIVIAMOCI…
Non potendo vivere insieme questo weekend la Festa Dèi Camminanti 2020 vi offriamo questo spazio per condividere ricordi, pensieri, commenti…
Possiamo ricordare le edizioni passate. Tiriamo fuori foto, racconti, video, letture!! Intanto stiamo provando ad immaginare questa edizione non più come un unico grande evento di tre giorni, ma come un percorso che ci accompagni per un tempo più lungo, forse addirittura un anno, non appena sarà possibile tornare a camminare insieme all’aperto. Intanto godiamoci i ricordi delle edizioni passate
ma a chi rispondo?
Oggi, sabato 4 aprile 202… no, sono foto degli anni scorsi. Se hai qualcosa anche tu da condividere o da commentare, scrivi qui sul sito. Abbiamo scelto una condivisione intima, ancora in ascolto delle tante forze e debolezze che sono in gioco. Intanto guardiamo come eravamo. Forse ci farà pensare ad un miglior domani!
Puoi anche mandarci delle fotografie di feste passate che tieni in memoria all’indirizzo info@camminanti.it, con il riferimento e la data, e provvederemo a caricarle.
Ieri ho percorso i sentieri della festa, sì, l’ho fatto, mi autodenuncio.
Ho rispettato i luoghi, il silenzio, l’aria, le mie gambe, il mio pensiero.
E nessuno intorno.
Prima ho faticato un poco, senza alberi ad ombreggiare il tracciato.
Poi nel versante esposto al vento ho seminato piccoli semi.
I semi erano stati raccolti a fine primavera scorsa da un’amica preziosa.
Erano pronti per essere depositati al suolo i semi di ginestra,
erano già stati sollecitati, con una rapida scottatura, alla germinazione.
Alcuni semi già con il germe fuoriuscito…
Li ho depositati al suolo in piccole buchette.
Poi ho attraversato un sentiero che soltanto due anni fa era un tunnel, un autentico tunnel, di corbezzoli, eriche, mirti, cisti, ginestre…
Se lasciamo fare, se aspettiamo e non precipitiamo nella tracotanza, il tunnel si riformerà presto.
E gli stecchi di alberi bruciati e neri saranno presto sommersi.
Godere del silenzio senza le interruzioni di aerei in cielo mi ha permesso anche di immaginare tutti noi tornare giù per i pendii del monte, senza orpelli ma con tanti sogni in testa, con la spensieratezza di tre giornate all’aria aperta, ad annusare la primavera esplosa, a rispettare quello che abbiamo intorno.
Ed ho pensato che le prossime volte non sarà una volta l’anno, sarà diluita nel tempo, sarà coltivare ginestre e rispetto, sarà non essere rumorosi, sarà esser cauti, ancora più cauti, sarà più semplice, più leggero…, e il senso sboccerà come sono spuntate le stelle.
E acquisterà significato nella misura in cui sapremo assieme trasformare in realtà… quanto abbiamo immaginato.
Ma veramente siamo stati sul monte?
Ma se ti chiamo ora dormi già?
Di già, avrei voluto scrivere, poi mi sono accorta che è presto per ricondursi ad una nuova flessione linguistica.
Sono entrata nella mia stanza,
gli scuri ancora aperti,
gli asciugamani di lino appesi al legno delle finestre,
l’odore di palo santo,
il mio mutare
negli abiti
dalla veglia
al sonno
il comó vecchio – che i cassetti si chiudono male –
la raccolta dei fiori di malva sulla scrivania,
il finocchietto selvatico appeso alle pareti del telaio
della finestra
che guarda il monte
con la tenda arrotolata
– libri ovunque –
e quella voglia di primavera con il vento fermo,
senza sentire gli odori dei fiori,
quella primavera fatta di nuovo e di ossi,
di ossa,
la carne è finita
l’amore cocente
dimenticato, sospeso, ghiacciato senza temperatura, è più semplice, non c’è più persempre,
e prendo ogni parola con guanti sottilissimi, per le ali,
la tengo nell’aria di un barattolo per ore e giorni,
non la consumo prima di ventiquattro ore,
come se a ricevere
messaggi,
scritti,
saluti
fosse una buca della posta di una casa isolata
ai bordi del paese
al limitare del bosco
a cui un postino stanco giunge a giorni alterni
– proteggo i pensieri da me stessa –
lavo i capelli con un sapone giallo,
un disco spesso di malgama odorosa
sbatto i polso verso la terra
perché il formicolio non avanzi
taglio a piccole ciocche gli ulivi
come la domenica delle palme
sono stata bambina in chiesa
e fuori, a casa
con l’odore del brodo di gallina e la sicurezza di avere una madre e un padre che non muoiono mai
bevo vino rosso, tanto
intonso,
buono,
più del solito, rotondo
Non sento più niente,
sento tutto,
faccio il teatro delle ombre, la notte, al camino,
le mani stanche
arrotolate sulle nocche
le dita come
zampironi rancidi,
litigo soave con i riccioli
dei miei capelli,
faccio colazioni e merende di burro
– indimenticabile la morbidezza del latte –
provo
ad accorciare le giornate
guardo
uomini che piangono – ne soffro dentro –
Continuo ad avere paura dei topi
divoro
non mi divoro più
Cammino tra gli alberi frondosi con le canzoni del sud alle orecchie
Ma se ti chiamo ora dormi già?
Ho trovato una radice di asparago, ieri
come te l’avrei spiegata?
Un ramo ritorto, non è di nocciolo,
come te l’avrei spiegato?
Una coreografia di resina rappresa
– la metto nel fuoco,
ci benedico gli addii –
una radice interna, un utero capovolto
come te l’avrei spiegata?
Sono viva, sono lontana, forse sono ancora viva.
Domenica 05 aprile sarei dovuta essere in attesa di parole, memorie e addii alla Rocca della Verruca.
Sono in attesa, sono qui.
…. come momenti condivisi
le parole segnano i passaggi
si sporcano di ricordi
radici al vento
nuvole di polvere e profumi
…. grazie dei doni tristezza vitale